Monday, January 23, 2012

NON CE NE SIAMO PENTITI






Una riflessione su Sacerdozio scritto da Karl Rahner per 25mo anniversario della sua Ordinazione Sacerdotale. 


Celebriamo insieme il 25° di sacerdozio. In un convitto teologico dove i giovani, chiamati da Dio in Cristo, si preparano al sacerdozio, la no­stra festa trova il suo luogo più adatto. Questi giovani intendono essere un giorno! quello che siamo ora noi, che possiamo guardare ai nostri 25 anni di vita sacerdotale. Perciò è giusta la no­stra festa. 

Infatti non vogliamo esaltare il singolo uomo, ma cogliere l'occasione per ringraziare Dio della grazia del sacerdozio e pregarlo di conser­varcela. Siamo in un convitto teologico. Sarà op­portuno (io penso a coloro che si sono qui rac­colti) dire parole semplici e fraterne sul sacerdo­zio, partire dal punto in cui noi, sacerdoti, e que­sti giovani, siamo arrivati. La prima cosa che possiamo loro dire con tutta tranquillità, sem­plicità e umiltà, ma anche con riconoscente fie­rezza, è che noi non ce ne siamo pentiti.
Forse una parola così semplice, così scarna pare non accordarsi alla solennità della festa. La si potrebbe ritenere troppo ovvia. Ed effettiva­mente in essa vi è alcunché di ovvio e cioè Cristo, la sua Chiesa, la nostra fede, il sacerdozio stesso: realtà ovvie, indiscutibili come è indiscutibile Dio e la sua eternità. E guardando a tali verità e realtà della fede, guardando al sacerdozio della Chiesa cattolica, non possiamo certo limitarci a dire: « Non ce ne siamo pentiti! » Tuttavia que­sta celebrazione presenta anche un secondo aspet­to. Noi stessi lo costituiamo, noi poveri uomini, piccoli uomini, deboli e peccatori, insicuri per­sino di noi stessi. Quando ci fu conferito il sa­cerdozio dalle mani del vescovo della Chiesa, era­vamo giovani e non potevamo non pensare al no­stro futuro. Potevamo solo credere e sperare che Dio ci chiamasse in Cristo, e la Chiesa chiamasse proprio noi, che fosse Dio a volerlo e che egli perciò ci avrebbe dato anche la sua grazia. Per questo noi, i poveri e i derelitti, ci siamo mossi, ci siamo lasciati consacrare sacerdoti della santa Chiesa cattolica. In quel giorno non potevamo prevedere il futuro, non sapevamo gli avveni­menti politici degli ultimi 25 anni e, soprattutto, non conoscevamo quel che vi era in noi stessi. Forse potevamo averne vago sentore; ce l'era­vamo sentito dire e ripetere negli anni precedenti alla consacrazione sacerdotale che siamo poveri e piccoli, stolti e deboli, assolutamente inferiori alle esigenze che comporta l'ufficio che ci siamo assunti. E tuttavia, a ben guardare, non eravamo in grado di sapere quello che sarebbe stato real­mente il futuro. Non chiudevamo gli occhi sul tempo né sopra noi stessi o la nostra vita. Non chiudevamo gli occhi sul nostro compito; ma, in fondo, non conoscevamo l'uomo al quale veni­vamo inviati, né quello che da noi l'uomo si sa­rebbe aspettato. Ad ogni modo ci siamo mossi, Dio ci ha mandati. Sia eterno grazie alla sua bontà e alla sua misericordia. In questi 25 anni egli non ci ha abbandonati. Per questo possiamo dire: « Non ce ne siamo pentiti ». All'uomo non è dato di riesperire alcun istante della sua esistenza e l'esperienza di ogni attimo è condizionata da quel che egli è stato ed è, non da quello che egli sarà un giorno. È per questo che sarebbe assurdo chie­derci ora, se oggi ripeteremmo quanto abbiamo fatto allora, se anche oggi ci faremmo consacrare, avremmo il coraggio di dire: « Adsum ». Non già, come dicemmo poc'anzi, ( perché oggi siamo in­sicuri della nostra vocazione. Al contrario. Non già perché ora ci pentiamo e, quindi, dubitiamo se lo faremmo ancora. Ma soltanto perché l'uomo non torna mai per la seconda volta al medesimo bivio, soltanto perché l'uomo non può mai essere affatto identico a quello che fu un giorno e per­ciò non può sapere come si comporterebbe in cir­costanze assolutamente fittizie. Una sola cosa dob­biamo quindi dire: Ciò che iniziammo quel giorno, è stato continuato dalla grazia di Dio. Egli ci ha condotti per la strada giusta. Ci ha resi continua­mente sacerdoti della sua santa Chiesa, al di là della nostra debolezza e della nostra infedeltà. Non so quale sarebbe il bilancio esatto di questi 25 anni. Ma esso non ci serve perché possiamo seppellire questi anni, con riconoscenza e con gioia, nella misericordia del Dio eterno. Tutto è quindi al suo posto giusto. Il bene che Dio ha compiuto, che anzi si è degnato di compiere per mezzo nostro, è un bene che rimane. E anche tutte le nostre deficienze, la durezza del nostro cuore, la viltà, l'indifferenza, la routine, il ridicolo che abbiamo portato di nostro nel sacerdozio della Chiesa, tutto questo è anch'esso avvolto nella mi­sericordia di Dio, è redento e dimenticato, può ritrasformarsi nella grazia di un sacerdozio umile. Ecco perciò che pronunciamo e intendiamo pro­nunciare, riconoscenti verso la Chiesa e verso gli uomini per i quali in questi anni abbiamo o avremmo dovuto significare qualcosa, uomini che sono venuti a cercare la grazia di Dio e che non si sono adirati con noi, riconoscenti verso Iddio e la sua ineffabile grazia: « Non ce ne siamo pen­titi! I doni concessi dalla grazia di Dio non co­noscono pentimento, secondo l'affermazione di Paolo; anche noi ne abbiamo fatto esperienza e in questo giorno riaccettiamo il sacerdozio j che ci è stato conferito con indelebile carattere, con libertà, riconoscenza, amore, fede e fedeltà dalla grazia di Dio. Non ce ne siamo pentiti ».
Perciò possiamo dire anche: « Dio è la nostra fiducia! » « Dio, che ha cominciato l'opera buona, la porterà a termine ». Non sappiamo per quanto   tempo ancora, pellegrini! sulla terra, dovremo adempiere il nostro incarico; può darsi a lungo, può darsi che la fine sia vicina. Venticinque anni fa non sapevamo per quali vie Dio ci avrebbe condotti, e nemmeno oggi lo sappiamo. Siamo rimasti i deboli, i poveri, i bisognosi di tutto. Forse lo diverremo ancora di più. Aumenta la nostra maturità e la nostra esperienza della vita, ma passano anche gli anni e il terreno a lungo coltivato non sempre produce più frutto. Non sappiamo quale sarà la strada che ci attende, ma sappiamo che Dio è fedele e misericordioso, è pieno di grazia: e lui porterà ogni cosa al com­pimento. Dio infatti è più grande del nostro cuore. Egli conosce tutto e non si pente dei doni che ha concesso. Per questo preghiamo ancora una volta con piena fiducia: « Inviaci, fa che re­stiamo al tuo servizio ancora fino che dura il giorno! Nella nostra povertà probabilmente non riusciremo a servirti meglio, o molto meglio, di quanto abbiamo fatto finora. E sappiamo quanta povertà, debolezza e piccolezza siano racchiuse in questo finora, sappiamo di essere stati servi inutili al tuo servizio. Ma per tanti anni tu ci hai conservati al tuo servizio e ci manterrai an­cora e sempre, con la tua grazia che non inganna. Abbiamo fiducia nella tua misericordia ». Per questo, cari amici, oggi diciamo direttamente a voi che volete diventare sacerdoti (è la conclu­sione che traiamo in tutta semplicità della nostra vita): « È un rischio che potete correre! ».
Siete uomini come lo siamo noi; abbiamo corso questo rischio e non ce ne siamo pentiti.  Perché dovrebbe essere diverso per voi? Quando comin­ciammo, i tempi non erano più facili, né più tran­quilli di oggi. Eppure Dio ci ha concesso la grazia autentica e beatificante del sacerdozio. Anche voi dunque potete correre questo rischio, anche in quest'epoca. Noi eravamo deboli, siamo stati pec­catori e lo siamo tuttora; nel nostro sacerdozio abbiamo portato il peso e i debiti contratti con il passato, i nostri talenti o non talenti, le nostre disposizioni naturali, le debolezze e le j fragilità della natura e del carattere; ma abbiamo anche personalmente visto che la grazia di Dio è più potente della nostra debolezza. Perché dunque anche voi non potrete correre questo rischio? Ab­biamo notato con sempre maggior precisione che l'ufficio e gli obblighi che esso comporta sono su­periori alle nostre forze umane, che non possiamo farvi fronte fidandoci di noi: ma Dio fu buono e fedele. Se di questo voi vi accorgete già fin d'ora, e noi speriamo che sia così, perché non dovreste avere coraggio? Siete chiamati a quel che vi è di più grande, essere i testimoni della verità di Dio nella tenebra di questo mondo, an­nunciare il regno di Dio nella confusione di que­sto tempo, distribuire la grazia di Dio a un po­polo che non è santo, rappresentare la Chiesa di Dio in mezzo al mondo affinché essa sia realmente il segno che la grazia di Dio è venuta, che l'al­leanza eterna tra Dio e l'uomo è stata conclusa, si fonda sulla fedeltà incrollabile di Dio e non sulla capacità o sulle deficienze dell'uomo. Dovete andare agli uomini e dire che non sono solo uomini di questo tempo, ma anche dell'eternità. Dovete stare all'inizio e alla fine della loro vita, dove uno muore e tutti scantonano e non sanno più che dire. Dovete benedire, dovete perdonare, avere il coraggio di ripetere sempre la parola di Dio, secondo o contro le regole della convenienza. Bisogna credere in questa chiamata, realizzarla in ogni giorno, non è un regalo di cui ci si può anche privare. Non la accogliemmo nel cuore con quell'intensità che ci assicura per sempre dalla i tentazione di preferire ciò che è terreno a ciò che è celeste; la chiamata non impedisce alla so­litudine di farsi sentire con tutta la sua pesan­tezza, non ci salva dalla tristezza di predicare forse ai sordi e di pronunciare parole con il rischio di non capirle nemmeno noi. Questa chiamata la portammo in noi con l'obbligo di riguadagnarla sempre di nuovo, impegnando tutta la forza del nostro cuore e, ancor più, ricorrendo alla grazia di Dio. Ma tutto questo è ovvio in un lavoro che si qualifica come chiamata di Dio, perché quel che più sta in atto e più dà felicità è anche più i esposto ai pericoli e più arduo. Tutto ciò è tanto chiaro che anche dopo questi anni non vi possiamo parlare diversamente. Tuttavia vi dicia­mo: È un rischio che potete correre! Nella mi­sura in cui la grazia di Dio vi ha raggiunti e la sua chiamata è arrivata fino al nostro spirito, al cuore e alla vostra coscienza rispondiamo: Correte questo rischio, esso rende felici! Richiede moltissimo da voi, ma è Dio, la sua grazia, la sua fedeltà, la sua chiamata beatificante che ve lo chiede ed è un felice destino lasciarsi chiamare da Dio, lasciarsi impegnare da lui sino allo spasimo.
Non ce ne siamo pentiti. Riaccettiamo in noi il sacerdozio con fiducia anche dopo 25 anni e vi diciamo: « Fratelli! Correte questo rischio, perché Io si può correre, poiché è Dio che lo corre con noi e con lui si arriverà fino in fondo non si rimarrà ai primi passi. Chi ci ha fatto per­correre l'inizio e metà del cammino, donerà a noi e a voi la pienezza eterna del sacerdozio e della vita: perché la sua grazia non conosce pentimento.

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